“essere lesbiche è un esperimento continuo, allora perché non creare una forma espressiva sperimentale capace di esprimere questo modo di essere?
Dai primi anni Settanta, Barbara Hammer ha delineato la sua plurima identità di attivista femminista e lesbica. Pioniera di un cinema di ricerca che si colloca nella linea queer, realizza un imponente mole di narrazioni a partire da sé, riconosciuta in ambiti internazionali per il suo creativo lavoro nel cinema sperimentale e poetico/politico.
Nata nel ’39 a Los Angeles, dopo studi di letteratura e psicologia, ha realizzato molti film indipendenti ad alto gradiente di bellezza e di impegno storico/critico: in super8, 16 mm e video, ispirata ai temi della sessualità lesbica, del femminismo e della storia inaddomesticata o perduta: dai primi corti Dyketactis (1974), Superdyke (1975), Multiple Orgasm (1976), Women I Love (1976), Superdyke Meets madame X (1978), Optic Nerve (1985) alla sua trilogia di focus lesbico femminista Nitrate Kisses (1992), Tender Fictions (1995), The female Closet (1998) History Lessons (2000), a Devotion, A film about Ogawa Production (2000) e My Babuska, Searching Ukrainian Idendities (2000) ai più recenti Lover Other, The Story of Claude Cahun and Marcel Moore (2006), A Horse Is Not A Metaphor (2009) Generation (2010) Maya Deren’s Sink (2011), Welcome to this House (2015) sulla poeta Elisabeth Bishop e le sue case.
Sin dai suoi primi film, nelle narrazioni di immaginari di esistenza, con il suo vivo e gioioso interesse per le soggettività eccentriche, la sua singolarità creativa è evidente nell’esplorazione delle personalità e delle convivenze, della sessualità e del piacere femminile libero, visto in forma entusiasta e lirica: terra incognita nella geografia del cinema fino a lei.
Per questo, inventa nuove rappresentazioni formali ed “esplosive” ed un vocabolario simbolico che esplora gli inconsci e le rappresentazioni sur_reali: non a caso la consonanza estetica delle sue più recenti opere con Maya Deren e Claude Cahun (era/sono io: psicosintesi)
Negli ultimi anni la vicenda della sua personale malattia di cancro, lunga e dolorosa, l’ha vista attiva nel raccontare ed elaborare la propria esperienza ( secondo la pratica femminista del partire da se’ nei processi di coscenzializzazione, di condivisione e del prendere parte) sul versante delle cure e del corpo fragile: in A Horse Is Not A Metaphor (2009) elementi visivi registrati durante le sedute di chemio si trasfigurano e trascorrono in immagini di paesaggi e di memorie evocative (es. la casa di Georgia O’Keefe nel deserto del Messico).
Barbara’s Performative Lectures, al Whitney Museum of American Art nell’ ottobre 2018: Art of Dying or (Palliative Art Making in the Age of Anxiety )in cui riporta insieme il suo percorso artistico e il suo desiderio di morire dignitosamente …
…c’è una gran paura a parlare di morte nel mondo occidentale, come se non nominandola si potesse mandarla via. Ma facciamo un cattivo servizio a noi stess* a non impegnarci in questa conversazione … Potremmo magari vederla come un rito di passaggio da affrontare …
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Tra le varie retrospettive, e dopo il MOMA, nel 2012 una importante personale su Barbara Hammer è stata presentata al Jeu de Paume di Parigi The Risky Visions of Barbara Hammer, American experimental filmmaker.
La nostra associazione di cultura cinematografica a soggettività femminista, la ricorda e la omaggia con la visione del bel documentario Lover Other, The Story of Claude Cahun and Marcel Moore (USA, 50′, 2006) custodito nel nostro Archivio, da quando lo abbiamo proiettato nel 2013, in collaborazione con la regista, nel quadro della mostra al Lazzaretto di Cagliari VISUAL ARTIvist.
scheda aggiornata al 2019
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